Oggi ospitiamo un post di Davide Cicetti, studente della quarta chimica dell’Istituto Volterra-Elia di Torrette di Ancona, che ci racconta l’ultima ricerca portata a termine all’interno del progetto ArcheoChimica, attivo dal 2003 in virtù dell’accordo tra Soprintendenza e l’istituto superiore. Le analisi sull’Apollino di Palazzo Ferretti sono state presentate al nostro museo lo scorso 24 gennaio dagli studenti della professoressa Stefania Sebastiani. Ora la parola a Davide!
Con il progetto ArcheoChimica attraverso ricerche, esperimenti e prove in laboratorio si cerca di dare una risposta a quelle domande che ci poniamo davanti a un reperto storico o molto più semplicemente (come avviene ogni giorno nella vita comune) a un materiale. Le domande che con più frequenza vengono poste dagli esperti sono principalmente queste: “di che materiale e fatto/a?”, “è un reperto originale?”.
Molte volte l’incompetenza e il non conoscere la realtà delle cose innesca nella mentalità della gente quel meccanismo che ci fa credere a tutto, pur non essendone pienamente sicuri.
Con l’aiuto dei nostri docenti di chimica (che ci hanno affiancato in laboratorio) e la nostra prof. di storia e italiano per quello che riguardava il campo storico-umanistico noi, ragazzi della quarta chimica dell’Istituto Volterra-Elia di Torrette di Ancona durante un’uscita didattica al Museo Archeologico Nazionale delle Marche, abbiamo avuto l’occasione di poter analizzare un piccolo campione della scultura neoclassica “Apollino di Palazzo Ferretti”. Il fine di questa indagine era confermare la consistenza e il materiale con cui erano state realizzate la statua ed il basamento. Le indagini di laboratorio hanno confermato che l’Apollino è di marmo, ma i dati più interessanti sono risultati dall’analisi del suo basamento. Nel nostro caso, infatti, ci siamo trovati di fronte a una colonna di sostegno, un basamento di dubbia origine, che abbiamo ipotizzato fosse in pietra ricostruita. Il primo dubbio era sorto già dall’esame esteriore, infatti:
- la pietra ricostruita è calda al tatto;
- non presenta venature sottili di marmi e pietre;
- se percossa, udiamo un suono sordo;
- non ha lucidità né cristalli di quarzo o calcite nella sua struttura, elementi che sono invece ben visibili nelle vere pietre naturali.
Ovviamente il nostro, essendo un lavoro che doveva essere esposto a un pubblico che ha il diritto di conoscere fatti certi, non poteva essere confermato solo dall’apparenza: aveva bisogno di dati e certezze che provenissero da analisi quantitative e qualitative.
Le analisi quantitative e chimico fisiche da noi svolte sono state quattro:
- la determinazione dell’acqua igroscopica. L’igroscopia è la capacità di una sostanza di assorbire le molecole d’acqua presenti nell’ambiente circostante;
- la determinazione della perdita di calcinazione (procedura che viene svolta in muffola a 900° C). Essa rappresenta l’acqua di combinazione, le sostanze organiche e l’anidride carbonica che si sviluppa per il decomporsi di carbonati di magnesio e di calcio nei rispettivi ossidi ed anidride carbonica (CO2);
- la determinazione del “calcare totale”, attraverso una prova gas-volumetrica con il calcimetro Dietrich-Frohling, la quale si basa sulla reazione tra il carbonato di calcio CaCO3, presente nel campione lapideo e l’acido cloridrico HCl, con conseguente sviluppo di anidride carbonica CO2, le cui moli sono stechiometricamente uguali a quelle di CaCO3. Dal volume di gas misurato riusciamo a risalire alla quantità di composto presente nel campione di partenza;
- la solubilità ovvero la capacità che aveva il campione di sciogliersi in acqua.
Abbiamo poi eseguito l’analisi qualitativa che si basava sulla verifica della presenza di ioni e cationi.
I risultati delle analisi sono riportati nella tabella allegata e come possiamo vedere, il dato sul basamento risulta significativamente diverso dagli altri, confermando la nostra ipotesi: la colonna di sostegno non è stata realizzata in marmo rosso, ma con la tecnica marmorea.
La domanda che ci sorge spontanea è: “che cos’è la marmorea?”
Probabilmente la maggior parte di noi la conosce meglio come un particolare tipo di intonaco (intonaco marmorato, intonaco a marmorea), è un sinonimo di stucco ovvero un impasto trattato in modo da imitare la consistenza e la brillantezza di superfici in marmo. La sua realizzazione è facile, essendo un semplice miscuglio composto da calce spenta mescolata a polvere di marmo, spesso utilizzata nelle decorazioni plastiche e/o come intonaco di finitura.
La marmorea fu utilizzata già diversi secoli prima, ma vediamo meglio la sua storia e i suoi utilizzi:
- In epoca romana veniva utilizzata come mano finale negli intonaci colorati.
- Nel Medioevo acquisì un ruolo secondario utilizzata solo per le stesure di base.
- Fine del ‘400: per imitare le sculture romane si lisciavano le statue con un intonaco di sabbia.
- ‘600-‘700: fu il periodo di massima diffusione, lo spessore minimo era di 4 millimetri.
- ‘800: con l’ aumento del costo della manodopera nell’Ottocento si tralasciano le laboriose lavorazioni con calce, puntando più al risparmio, utilizzando così i marmorini (composti formati da gesso e colla), sostituendo così la costosa marmorea.
Anche il tema storico è stato affrontato, potendo così ipotizzare la cronologia e la provenienza della statua e del resto delle opere analizzate. Durate la presentazione al pubblico che si è tenuta sabato 24 gennaio 2015 all’interno della sala conferenze del Museo Archeologico Nazionale delle Marche ad Ancona, abbiamo esposto i nostri risultati e gli argomenti, approfonditi durante l’anno, relativi alle tematiche correlate, come il degrado delle opere d’arte a causa di fattori climatici (umidità, vento, variazioni di temperatura), ma anche dell’inquinamento atmosferico (ozono, biossido di zolfo). Abbiamo analizzato dunque anche i vari tipi di degrado (fisico, chimico, biologico) subiti dai monumenti anconetani. Tra i principali troviamo il fenomeno delle croste nere, visibile prima dei periodici restauri sulla facciata della chiesa di Santa Maria della Piazza, il fenomeno della cristallizzazione dei sali solubili visibili nelle mura del Sangallo.
L’esperienza di cui la nostra classe si è resa protagonista, non è stata vissuta solo come una prova di valutazione. Ma bensì come un momento importante per osservare con altri occhi, capire ed entrare a fondo nella realtà in cui viviamo, cambiando in parte le nostre idee, portandoci a vivere nella nostra città in maniera migliore, tutelando, nel nostro piccolo, le opere d’arte lasciateci dalla storia che, a causa di numerosi agenti inquinanti, si stanno pian piano distruggendo.
Davide Cicetti, 4 ACH
Tabella riassuntiva dei dati sperimentali
Campioni di elementi lapidei – Prelievo: Museo Archeologico Ancona
Una Risposta a “Giovani chimici al museo: il racconto del progetto ArcheoChimica”